È ancora possibile al giorno d’oggi raccontare il mondo e la realtà circostanti attraverso una manciata di canzoni, così come hanno fatto per tanti anni i più importanti cantautori della scena italiana? La risposta – in questo caso affermativa, al netto di alcune dovute precisazioni – arriva dal nuovo album di Dario Brunori, in arte Brunori SAS, uno dei migliori esponenti del cosiddetto nuovo cantautorato italiano.
Il suo recente A casa tutto bene è una summa di stati d’animo legati al vivere nella società contemporanea, un disco che seguendo la miglior tradizione cantautorale non dà risposte, ma al contrario amplifica i dubbi e le domande tipiche del nostro tempo, sempre in bilico tra speranza e disillusione. Nel (ri)metter mano a questa “poetica del dubbio” – che ha illustri predecessori in Guccini e Vecchioni, tanto per fare due nomi altisonanti – Brunori ci aggiunge del suo, raccontando attraverso un codice espressivo contemporaneo e diretto molti dei tic dell’italiano medio, sia a livello personale e generazionale, sia dal punto di vista sociale e politico. Perché A casa tutto bene è un disco anche politico, laddove per politico si intende la volontà di mettere al centro delle canzoni una narrazione corale, ovvero di rendere condivisibile attraverso piccole storie quotidiane un vissuto e un sentire comune a tante persone, soprattutto giovani, che si trovano ad affrontare ogni giorno i medesimi problemi.
Quelle di Brunori sono “canzoni contro la paura”, per citare uno dei pezzi meglio riusciti dell’album, ma non solo: a tratti con piglio ironico o sarcastico, in altri momenti con più irruenza, disillusione e altrettanta dolcezza, Brunori dà voce ai pensieri più reconditi di quella “generazione di mezzo” che vive nell’incertezza più totale, cantando tutti i dubbi legati a un futuro che non si sa bene dove porterà. La verità in questo senso funge da perfetto manifesto artistico del disco, con un testo che non ha bisogno di troppe precisazioni: “Te ne sei accorto, sì / che passi tutto il giorno a disegnare / quella barchetta ferma in mezzo al mare / e non ti butti mai… / Te ne sei accorto, no / che non c’hai più le palle per rischiare / di diventare quello che ti pare / e non ci credi più… / La verità è che ti fa paura l’idea di scomparire / l’idea che tutto quello a cui ti aggrappi prima o poi dovrà morire / La verità è che non vuoi cambiare / che non sai rinunciare a quelle quattro, cinque cose a cui non credi neanche più…”.
L’uomo nero è invece un ritratto tagliente e a tratti spietato di chi agisce e si comporta in maniera opposta rispetto a quanto afferma o dice di pensare: da un lato la parte di umanità più razzista e perbenista, legata ai più beceri luoghi comuni (“Hai notato che l’uomo nero spesso ha un debole per la casa / a casa nostra, a casa loro, tutta una vita casa e lavoro / ed è un maniaco della famiglia, soprattutto quella cristiana / per cui ama il prossimo tuo solo se carne di razza italiana…”); dall’altro chi si dimostra più aperto e fiducioso di un futuro migliore (E tu, tu che pensavi che fosse tutta acqua passata / che questa tragica lurida storia non si sarebbe più ripetuta / tu che credevi nel progresso e nei sorrisi di Mandela / tu che pensavi che dopo l’inverno sarebbe arrivata la primavera…”). La sintesi fra questi due mondi spetta all’io narrante di Brunori, che interviene con un laconico “e invece no” al termine di ogni ritornello: “E io, io che pensavo che fosse tutto una passeggiata / e che bastasse cantare canzoni per dare al mondo una sistemata… e invece no”.
Purtroppo per cambiare la mentalità di certa gente non basta una canzone, ma quest’ultima in definitiva, pur con tutti i suoi limiti, è ancora uno strumento fondamentale per far circolare idee e opinioni. Canzone contro la paura è per l’appunto una meta-canzone, così come lo era stata Una canzone negli intenti del Guccini di Ritratti: in quel caso il cantautore emiliano descriveva l’essenza di una canzone, qui Brunori affida alle sue strofe molti dei motivi per cui ha ancora senso scrivere canzoni. Prima ammette con una certa dose di autoironia che “Scrivo canzoni poco intelligenti, che le capisci subito non appena le senti / canzoni che parlano d’amore, perché alla fine dai di che altro vuoi parlare? / che se ti guardi intorno non c’è niente da cantare / solamente un grande vuoto che a guardarlo ti fa male…”; poi però ribalta la prospettiva, rivendicando l’importanza che hanno ancora le canzoni per tante persone: “E invece no, tu vuoi canzoni emozionanti, che ti acchiappano alla gola senza tanti complimenti / canzoni come sberle in faccia per costringerti a pensare / canzoni belle da restarci male / canzoni che ti salvano la vita / che ti fanno dire “no, cazzo, non è ancora finita!” / che ti danno la forza di ricominciare / che ti tengono in piedi quando senti di crollare…”. La morale è che alla fine non si può assolutamente prescindere dalle canzoni, tanto da concludere: “Ma non ti sembra un miracolo che in mezzo a questo dolore e in tutto questo rumore / a volte basta una canzone, anche una stupida canzone / solo una stupida canzone a ricordarti chi sei…”.
Fra i tanti argomenti affrontati in queste nuove composizioni, ci sono gli effetti e le paure nei confronti di una società sempre più liquida e mutevole cantati in La vita liquida (“Liquide le ideologie e le nuove religioni / liquidi i valori ed il mio senso del dovere / liquida è una lacrima che mi aiuta a non vedere / che sono un uomo liquido…”), ma anche l’egoismo dilagante descritto nell’ottima Sabato bestiale (“Ma tu mi parli ancora di pensione e di barconi pieni di africani / come se fossero problemi tuoi, come se non c’avessi già i problemi miei / che i sindacati stanno col padrone, altro che primo maggio e festa dei cazzoni / che ognuno pensa per sé stesso e quindi anche io faccio lo stesso…”). Secondo me è invece un brano che tra ironia e disincanto mette alla berlina certi comportamenti e atteggiamenti tipici della nostra società, sottolineando invece la necessità di vedere le cose da diversi punti di vista: “Secondo me ci siamo troppo imborghesiti / abbiamo perso il desiderio di sporcarci un po’ i vestiti / se canti il popolo sarai anche un cantautore, sarai anche un cantastorie / ma ogni volta ai tuoi concerti non c’è neanche un muratore… / Secondo me, secondo me, io vedo il mondo solo secondo me / secondo me, secondo me, e scrivo al mondo solo secondo me / chissà com’è invece il mondo visto da te…”.
Tra i brani migliori presenti nel nuovo album di Brunori c’è sicuramente Don Abbondio, descrizione in chiave dolce-amara del menefreghismo dilagante di tutti coloro per i quali la morale è sempre far finta di niente e girarsi dall’altra parte, qualsiasi cosa succeda: “Don Abbondio nello strazio del mio mare violentato / dello stato delle cose che ormai è dato per scontato / nella farsa tragicomica di una tratta autostradale / nelle morti per errore sopra un letto di ospedale… / Don Abbondio è mio nipote, lo dobbiamo sistemare / tra le sedie e le poltrone di un consiglio comunale / tra le mani che si allisciano ed un seggio elettorale / Don Abbondio negli inchini, nella schiena che si piega / Don Abbondio che alla fine a noi che cazzo ce ne frega / Don Abbondio sono io, affacciato alla finestra / a guardare le macerie, a contare quel che resta… / Don Abbondio è mia madre, la mia terra e il mio dialetto / la Madonna che si inchina per paura e per rispetto / per un pomodoro rosso come il sangue di un cristo / che ha la pelle così nera che nessuno l’ha mai visto…”.
Nel disco c’è spazio anche per un paio di canzoni d’amore: Colpo di pistola è una storia atipica e stralunata, che già dal titolo rivela di non essere esattamente un tipico brano sanremese (“Perché l’amore, l’amore è un colpo di pistola / l’amore, l’amore è un pugno sulla schiena / è uno schiaffo per cena / l’amore ti tocca appena…”); il secondo si intitola Diego ed io ed è una ballata per pianoforte e archi ispirata alla storia d’amore tra i pittori messicani Diego Rivera e Frida Kahlo: “Questo letto, questo specchio ormai rifletterà sulla tela solo il mio dolore / che ho provato ad annegare in un fiume di Mezcal / ma il dolore sai, non sa nuotare…”. L’Italia osservata da sud a nord torna protagonista in Lamezia-Milano, brano che parla in qualche modo di viaggi, di andate e ritorni tra passato e futuro, con un occhio sempre fisso alle radici: “Con la metropoli che ancora incanta / e la provincia ferma agli anni ottanta / l’Italia sventola la bandiera bianca / e canta e canta…”.
Di fronte a uno scenario abbastanza desolante ma molto realistico nei contenuti, la breve Il vestito da torero fa emergere ancora una volta come il cantautore sia il solo che, novello Don Chisciotte, può incaricarsi di salvare le sorti del mondo con le uniche armi a sua disposizione, ovvero le canzoni: “Passami il mantello nero, il mio costume da torero / oggi salvo il mondo intero con un pugno di poesie… / non sarò mai abbastanza cinico da smettere di credere / che il mondo possa essere migliore di com’è / ma non sarò neanche tanto stupido da credere / che il mondo possa crescere se non parto da me…”. Infine La vita pensata, messa non a caso a conclusione dell’album, riassume il concetto che sta alla base del disco, ovvero che bisogna cercare risposte pur sapendo che molto probabilmente queste non arriveranno mai: “Ma l’ho capito finalmente che io del mondo non c’ho capito niente / che voglio fare il furbo e invece sono un fesso come sempre / me lo dicevi anche tu, la vita va vissuta senza trovarci un senso / me lo dicevi anche tu / la vita va vissuta e invece io la penso…”.
A casa tutto bene è un disco che oltre alle parole si fa apprezzare anche per la ricchezza dei suoni e degli arrangiamenti, capaci di donare la giusta luce ai testi e ai contenuti delle singole canzoni. I brani hanno nelle linee armoniche del cantato l’incedere che rimanda spesso a molti episodi del miglior cantautorato italiano: la poetica di Brunori e il suo modo di esprimersi, insieme agli arrangiamenti molto curati, richiama a tratti certe atmosfere tipiche di Lucio Dalla, altre di De Gregori, Fossati o Battiato, ma anche l’ironia e l’irriverenza di Gaber e di Rino Gaetano, fino ad arrivare ad alcune sfumature dell’indie-rock degli Afterhours o ad alcuni modelli espressivi cari a Daniele Silvestri.
Insomma, A casa tutto bene affonda giustamente a piene mani nella tradizione della miglior canzone d’autore italiana e si sente lontano un chilometro. Forse è vero che alla fine, citando ancora una volta il buon Guccini, “a canzoni non si fan rivoluzioni”, ma già poter ragionare sul nostro modo di stare al mondo e non dover pensare per un attimo alle scimmie nude che ballano è un bel passo avanti per combattere la paura e la vuotezza di questi tempi da talent show e di artisti che durano quanto il tempo di una loro oltretutto discutibile esibizione.
Matteo Manente