Dal primo di aprile è in tour insieme alla band Shiver, composta da giovani lecchesi. Stiamo parlando di Davide Van De Sfroos, che come vi abbiamo già raccontato venerdì 6 sabato 7 maggio sarà sul palco del Cenacolo Francescano di Lecco. In occasione di questo doppio appuntamento, ecco la nostra intervista al noto cantautore lariano.
Questo tour rappresenta un ritorno alle origini, dopo un periodo di sperimentazioni. Quali sono le sensazioni e le motivazioni che stanno alla base di questo tuo nuovo viaggio musicale?
Il periodo che hai definito è il periodo di tutta una vita, dal punto di vista musicale: fin dall’inizio, quando giravo con la chitarra o la chitarra banjo in spalla per le strade del paese, scrivendo storie di paese, cose che potessero far sorridere e rappresentare il paese stesso. Di cose ne sono successe. Siamo partiti da un disco che si chiama Brèva e Tivàn. Da un luogo, da un territorio. Poi abbiamo proseguito con …e semm partii e verso atmosfere strane, cupe, burtoniane e gotiche con Akuaduulza. Ci sono state sperimentazioni etniche con musicisti di regioni come Sardegna e Salento e abbiamo approfondito la cultura degli aztechi e dei Nativi Americani. Poi è arrivato il periodo dove sentivamo la necessità di raccontare qualcosa di più denso, perché la vita ti mostra anche questo lato. Quindi le persone e la fatica, dei viaggi antropologici nelle storie di minatori e costruttori, racchiuse nel disco Pica! C’è poi la parte più delicata, quella che riguarda i pensieri e le preoccupazioni, una speranza per combattere i propri demoni che ti incupiscono: il disco Yanez potrebbe essere definito crepuscolare e Goga e Magoga un disco bipolare, dove vieni spinto dalla musica e dai gesti in luoghi che non avresti mai immaginato. Al culmine di questo percorso arriva il disco con l’orchestra, le canzoni rivisitate dal maestro Vito Lo Re. E alla fine mi sono domandato cosa fare, perché mi sembrava di aver tirato la musica come se fosse un chewing-gum, in lungo e in largo, e dopo molte soddisfazioni sentivo il richiamo della semplicità e il ritorno a casa. Vedere com’ero diventato e vedere come ci sarebbe stata la musica nel mio giardino. Per fare questo avevo bisogno di una guida, che avesse la visione di un giovane, con quella luce e quell’energia necessaria per intraprendere un viaggio di questo tipo. Ecco perché gli Shiver.
L’energia è arrivata anche dalla collaborazione con il maestro Vito Lo Re?
Certo, sono due tipi di energie diverse. Il maestro Lo Re ti porta nel mondo della musica sinfonica, melodie che sono come colonne sonore. Trasforma le canzoni in qualcosa di cinematografico e astratto. Dall’altra parte gli Shiver ti portano a ricordare da dove sei partito. Quando li ho visti ho pensato che quando avevo vent’anni mi sarebbe piaciuto molto avere una band così. Ma probabilmente eravamo molto più spartani, molto più pionieristici e all’epoca non eravamo assolutamente preparati. Mi chiedo, come sarebbe stato? Allora, andando contro tempo, mi faccio guidare da loro. Un po’ come in quei contesti western dove il nonno, il padre, i figli e i nipoti suonano tutti insieme. Due generazioni che cooperano. Da un lato canzoni, chilometri e un po’ di stanchezza e dall’altro visione, freschezza, suggestione. Mescoliamo tutto e divertiamoci, finalmente. Senza pensare troppo.
Ma il tuo rapporto con Lecco oltrepassa la collaborazione con gli Shiver (nonostante quello con Como sia più rimarcato, anche dal punto di vista sportivo)…
Dalla mia finestra io vedo la Grigna. Sono un grande sostenitore di Lecco, dove ho suonato spesso. Ho avuto musicisti della provincia di Lecco per quasi tutta una vita, e ho compreso che questo lago per me è un corpo unico. Non c’entrano le divisioni calcistiche. Lo stesso vale per la Lombardia. Non esistono campanilismi strani. Distinguiamo bene quello che è il momento da tifoso, quale tra l’altro non sono in modo così accanito, da tutto il resto. Sono un viaggiatore della mia terra e ho cercato di trattenere tutto. Ultimamente ho fatto parecchi filmati con la mia equipe per Terra e Acqua. Ho girato tutto il ramo di Como, il ramo di Lecco, tutta la Brianza e la parte dell’Insubria, Varese. Ho conosciuto l’importanza di questa grande e importantissima regione. Lecco ha sempre fatto parte della mia vita, sin dal mattino, quando andavo in piazza a sentire i commenti della gente. Da Bellagio vedo la Grigna e poi la Valsassina. Fanno parte del mio immaginario e delle mie suggestioni.
Sei uno dei pochi cantastorie rimasti nella musica italiana insieme a De Gregori, di cui a Sanremo hai cantato “Viva l’Italia”. Quanto è importante oggi questo approccio alla musica, più autoriale e più connesso alla realtà che ci circonda?
Stiamo parlando di musica. Ognuno cerca la musica che gli interessa. Sicuramente nelle canzoni ci sono delle parole e ognuno decide che parole metterci: parole d’amore, politica, sfida o altro. Tu hai parlato di cantastorie, quei personaggi che in italiano immagini con il liuto e la calzamaglia ma che se lo pronunci in inglese è lo storyteller, il raccontatore di storie. Io non so quanto possa interessare che io racconti storie, ma sicuramente quando le persone arrivano al concerto mi trasferiscono l’importanza dell’aver raccontato storie. E non ho mai smesso di farlo perché credo nell’importanza di questa cosa. È ovvio che colui che racconta storie diventa un cronista del suo tempo: racconta dossier e reportage su quello che ha visto, fatto o sentito nelle determinate epoche. Woody Guthrie, che girava con una chitarrina marcia e senza nessun accompagnamento, cantava storie su quello che avveniva in quel momento in America: le tempeste di sabbia, la Grande Depressione, la disoccupazione e la miseria. Lui è stato un cantautore ma anche un giornalista, a suo modo, e ascoltando le sue canzoni ci rendiamo conto di cosa ha vissuto quella generazione in quel determinato momento storico. Raccontando storie di un territorio con una lingua fortemente legata a quel luogo ti avventuri anche in un’operazione antropologica: oltre a metterci la tua poesia, metti anche il punto di vista di un popolo intero, o se non altro il linguaggio usato ancora da questo popolo, laddove canzoni come Il ballo del qua qua o Papaveri e papere hanno la loro valenza a livello nazional-popolare ma poco altro, seppur scavando al loro interno. De Gregori è un grande cantastorie d’Italia: di quell’Italia che si muove, che va anche fuori dal Belpaese. Le sue sono visioni surreali riguardano la realtà e il luogo d’appartenenza.
Quei migranti che tu racconti, partiti con valigie di cartone, sogni e malinconia, oggi sono arrivati? Oppure sono ancora in viaggio?
Io li ho visti all’epoca arrivare. Arrivavano, si integravano, avevano figli e poi lavoravano. Si trovavano una posizione e si sposavano. Sono riusciti ad arrivare a creare le foglie dopo aver messo le radici in un luogo che era diventato casa. Tutti parlano sempre di radici, pochi parlano del terreno nel quale poi queste radici vengono affondate. C’è sempre qualcuno che si sta muovendo, lo vediamo anche in modo drammatico in questi anni.
Vi sono luoghi da cui è obbligatorio scappare perché l’alternativa è la miseria o la morte. Per motivi politici, esistenziali, di fame o economici. È ovvio che il mondo va alla ricerca di un luogo dove far crescere le proprie foglie e i propri rami, con la speranza di non vedere i propri figli dover partire di nuovo e viaggiare alla ricerca di qualcosa. Una volta eravamo noi che andavamo in Belgio, Sudafrica, Sudamerica, Australia. Siamo stati camerieri, soldati, aviatori, cialtroni, perdigiorno, farabutti, gangster. Siamo stati turisti per caso e turisti per forza. Ora abbiamo visto quanta gente deve andare all’estero per far sbocciare le proprie foglie. Si cerca impiego altrove perché la crisi di questi anni ha portato i giovani a sognare mete e luoghi diversi, mentre dall’altra parte continuiamo ad accogliere persone alla ricerca di un Eldorado che forse non esiste più. Non esiste la vera isola del tesoro, è tutto un movimento continuo che non ci permette di rimanere lì, dove siamo. Irrequietezza e fuga da se stessi. Tutto questo spesso nelle canzoni c’è.
In Akuaduulza parli di angeli che però i gh’han dirutaa | e gh’emm i al tücc stramüsciaa e ripiegaa suta el paltò. Questa sensazione di costrizione è ancora presente?
Sono andato in diverse carceri a suonare e a conoscere i detenuti e quella canzone nasce dopo aver vissuto queste esperienze. È facile dire “carcerato”, ma spesso dietro alle sbarre si possono trovare uomini che hanno commesso qualcosa di atroce insieme a persone che magari hanno semplicemente fatto un errore non grave. Quel mondo non è lì solo per essere giudicato: al suo interno ci sono sicuramente persone che meritano di scontare tutto quel tempo in carcere, ma anche alcuni che hanno fatto una stupidata quando erano ragazzi e che ora sono ancora in quella prigione, realmente pentiti ma con l’impossibilità di uscire per chiedere scusa agli altri e a se stessi. È una cosa che ti segna profondamente, soprattutto chi paga con anni di reclusione un minuto di rabbia e sconforto.
Musica e scrittura sono connessi nella tua vita?
La scrittura nella mia vita si è poi connessa alla musica e al palco. Non viceversa. Le prime cose che ho fatto da bambino erano scritture, di qualsiasi tipo, dal diario personale al tema scolastico. È il mezzo più diretto per raccontare storie che poi si dilatano in una canzone. Amo raccontare con penna e matita, è un modo istintivo di scrivere che mi aiuta, perché quella è scrittura reale. Come l’inchiostro che riempie il foglio bianco.
Davide Sica