LECCO – Il suo ultimo romanzo, Gli scaduti, racconta di un mondo immaginario, in cui un Partito Unico di atletici e sorridenti trenta e quarantenni prende il potere, mentre agli over sessanta viene imposto di ritirarsi in luoghi non specificati, dove vivere il resto della loro vita separati da mogli, mariti, famiglie. Si tratta di Lidia Ravera, scrittrice che mercoledì 16 marzo 2016 è stata ospite del festival Leggermente e che abbiamo intervistato. Una lunga chiacchierata che a partire dal romanzo si è estesa a temi di attualità, dalla politica al rapporto intergenerazionale, dal ruolo delle donne alla rottamazione.
“Gli scaduti” è un romanzo distopico, ambientato in una società totalitaria di un ipotetico futuro. Si tratta della prima volta che ha affrontato questo genere letterario: quali sono state le ragioni? Quali, se ne ha, i modelli a cui si è ispirata?
Non ho deciso di scrivere una novella distopica a priori, pur avendo naturalmente letto Orwell, Huxley e Philip Dick. Ho semplicemente avuto l’idea di un’involuzione possibile della nostra società e l’ho raccontata, senza scegliere di proposito un genere letterario. Nello scrivere nulla è cambiato rispetto al solito: certi giorni ti senti scema, certi giorni un genio, certe pagine ti piacciono da morire, altre le butti, ogni tanto ti svegli e pensi ma perché mi è venuta in mente questa boiata pazzesca? E poi ti svegli e ti dici ma questa è un’idea geniale e così via… È stato così per quarant’anni. Nessuno è mai sicuro di avere scritto un capolavoro a meno che sia cretino, perché le persone mediamente intelligenti sono insicure. Scrivere romanzi è sempre una sfida.
È passato un anno dall’uscita del suo libro. Durante tutto questo tempo non le è mai capitato di pensare, osservando il dibattito pubblico, che molti dei protagonisti politici parlassero come i personaggi del romanzo?
Questo libro è nato in risposta a una parola utilizzata dall’attuale premier, rottamazione, e rivolta a una classe dirigente più o meno della mia epoca. L’espressione non mi ha dato fastidio per i Bersani e i D’Alema – anche io penso che chi è stato diversi anni in politica debba lasciare a persone più fresche – ma per il fatto che questa parola, generalmente utilizzata per carcasse di automobili, sia stata applicata a esseri umani. Rottamare è un verbo che denota una volgarità profonda. In genere le parole della politica sono ripetitive, astratte ed escludenti: questa è, invece, una parola rivelazione, in quanto mette in luce una meccanicità della politica e una mancanza di umanità che paghiamo tutti quanti. Detto questo, trovo confermato nel dibattito politico molto di quello che ho scritto, perché in quel futuro ipotetico e distopico sono contenute molte cose del presente. Gli anni che stiamo attraversando sono quelli che i miei protagonisti chiamano gli anni del grande disordine.
Una parola per lei inadatta, quindi. Spesso da espressioni nuove e magari violente nascono società totalitarie o autoritarie. Oggi corriamo questo rischio?
Il rischio c’è, anche perché stiamo vivendo una crisi della democrazia e dei partiti. C’è ormai una totale assenza di spirito di servizio nei confronti dei cittadini, che può portare a una crisi stessa della democrazia per come l’avevano pensata i nostri padri costituenti. Loro hanno costruito il nostro paese su quei partiti che ora sono in una crisi profonda: si assiste infatti a uno scollamento, molto grave ma comprensibile, tra popolazione e professionisti della politica. Credo che i partiti si siano meritati tutto, ma questa situazione mette in pericolo l’esistenza stessa della democrazia. Nel romanzo ho scherzato immaginando un partito unico e un Lider Maximo che nuota nelle piscine, i matrimoni intergenerazionali fuori legge e tutto il resto. Ho scherzato, certo, ma neanche così tanto…
A proposito di scherzi, il suo Lider Maximo, per molte cose simile a Renzi, si chiama Massimo, proprio come D’Alema. Un caso?
No, non è un caso. Mi piaceva molto l’idea di chiamarlo come D’Alema, di cui non sono entusiasta se consideriamo gli errori fatti quando è stato al potere. Certo, quella generazione era una generazione più colta, compresi i politici, che studiavano sicuramente di più di quelli di adesso. Una classe politica, quella attuale, che sto a sentire con divertimento e che penso abbia uno spessore teorico veramente minimo. Comunque non voglio bocciare una generazione: come tra i vecchi ci sono quelli acquiescenti e quelli ribelli, anche tra i giovani ci sono gli opportunisti, i più tonti che si fanno far fessi come la Federica del mio romanzo, e i ribelli, che sono i migliori e sui quali io conto molto. Penso, infatti, che tocchi alla generazione dopo la mia uscire dalla crisi della democrazia e ristabilire un ordine decente.
Nel suo libro dipinge un futuro non certo felice per le donne: sembra che la loro massima aspirazione sia quella di partorire…
Il Partito Unico vuole questo: che le donne partoriscano tutte a venticinque anni. Non c’è interesse neanche per la famiglia, perché le future madri possono comprarsi lo sperma preferito. L’unica cosa che conta è la natalità. Il problema è avere di nuovo una società con dei giovani, come accade nei paesi poveri. Il Lider Maximo decide quindi di prendere questo provvedimenti perché si sente minacciato. Non è un potere ottuso e ha le sue ragioni. Ragioni che, tornando ai rottamatori, anche la generazione venuta dopo la mia sembra avere: ritardi nell’inizio della carriera, meno spazi e meno meritocrazia, scambio di favori che paiono reggere tutto il nostro Paese.
Ci sono, secondo lei, le prospettive per un miglioramento? C’è un modo per cambiare la situazione?
Penso che qualcosa debba accadere, anche se non so cosa. Non bastano quattro o cinque ministri di trent’anni. Oggi gli under trentacinque sono trattati un po’ come una specie protetta, esattamente come per le donne per cui vengono previste le quote…
Nel suo libro porta all’eccesso anche la mania salutista di questi ultimi decenni. Tutti fanno sport, mangiano solo sostanze nutrienti e salutari…
Sì, nel mio romanzo bisogna essere assolutamente sani e se occupi una posizione di potere non si può, ad esempio, essere grassi. Un modello in cui bisogna essere agile, carino e cretino. Se pensiamo alla nostra quotidianità sembra che a ogni cena non si possa evitare di parlare di diete: quelli che il maiale no o il maiale sì e non per motivi religiosi, quelli che non mangiano le patate, quelli che dicono che il pomodoro fa male. È tutto talmente noioso che mi sta portando, alcune volte, a scansare le cene con i miei amici. D’altronde, in una società senza ideologie e senza religione ognuno si fa le regole dove riesce.
“Gli scaduti” si conclude con una speranza: l’amore è in grado di cambiare le cose e di portare alla ribellione prima individuale e poi, si spera, collettiva…
Questo fa parte della mia battaglia contro gli stereotipi. Tutti pensano che ci si possa innamorare solo da giovani e che l’amore riesca a durare solo tre mesi. Io invece ho descritto una coppia che sta insieme da tanti anni e che si ama ancora: può succedere. Umberto e Elisabetta sono due pari, non è una coppia con l’uomo potente e la donna che sta a casa, né quella con l’uomo narciso e la donna timida e neppure quella con la donna forte e l’uomo scemo. Sono due pari stazza che si apprezzano e si spalleggiano. L’amore con il passare del tempo cambia le modalità, ma non sparisce: certe cose sono infatti meno importanti, gli ormoni non comandano più, ma c’è ancora sensualità, tenerezza e scambio. La mia protagonista non ha infatti alcuna intenzione di perdere il suo uomo.
Non solo nel suo ultimo libro, ma anche in altri lavori lei ha trattato il rapporto e lo scontro intergenerazionale. Come devono interagire, in conclusione, le diverse generazioni? E le persone che nel suo romanzo vengono messe in disparte, come possono e devono contribuire alla società?
Quello che devono fare è semplicemente continuare a vivere delle vite possibilmente piene. Poi è chiaro che ci sono tante differenze, perché i vecchi, come i giovani, non sono tutti uguali. Purtroppo ci sono molte generalizzazioni, ma è un dato di fatto che la vita si sia allungata. Chi ha oggi sessant’anni sa che mediamente la sua vita può durare altri trent’anni. Vita più lunga e drastica diminuzione della natalità fanno sì che essere over 60 significhi fare parte del 21% della popolazione italiana. Una percentuale elevata e che sta crescendo esponenzialmente, per cui bisogna farci i conti, anche perché non si tratta di persone qualunque. Sono, infatti, coloro che hanno fatto il Sessantotto e le battaglie degli anni Settanta e che hanno cambiato il costume di questo paese: metterli in soffitta è un po’ difficile. La soluzione potrebbe essere quella di un patto generazionale. Mi aspetto moltissimo dai giovani, ma devono raccontarmi qualcosa che non so già.
Una diversa visione del mondo…
Io sono scappata di casa a diciotto anni, non mi sono sposata per far dispetto a mia madre, non mi sono laureata per far dispetto a mio padre, da figlia della buona borghesia torinese sono andata a fare la fame. Avevo un motivo però per fare tutto questo e non avevo nulla contro i miei genitori: è che avevo un’idea di società, di relazione tra i sessi e di relazione genitori-figli diversa. Non avevo una sola posizione in comune con loro, li ascoltavo e dicevo: io invece la penso così. Vorrei quindi che qualcuno dei giovani di oggi venisse a dirmi lo stesso: guarda che ti sbagli perché noi la società la vediamo così. Ne sarei molto felice. Invece ciò che troppo spesso sento dire, anche se per fortuna ci sono le eccezioni, è uno scansati che mi serve il posto tuo.
Daniele Frisco