LECCO – È salito sul palco del Teatro della Società sabato 28 novembre 2015 e ha ancora una volta raccolto gli applausi dei lecchesi. Si tratta di Ascanio Celestini, che abbiamo incontrato proprio al termine del suo ultimo spettacolo, Laika. Un nuovo monologo, questo, con al centro personaggi che abitano una periferia degradata di una grande città: una sorta di Gesù che si finge cieco e vive con un Pietro dalla voce leggera e delicata di donna, una vecchia, una donna con la testa impicciata, una prostituta e un senzatetto nordafricano. Uomini e donne che fanno parte dell’immaginario dell’attore e che raccontano ancora una volta un mondo di periferia, dove persone che sembrano tagliate fuori dall’umanità decidono, al termine della pièce, di reagire e fare qualcosa per rispondere ai soprusi. Uno spettacolo che affronta diverse tematiche, dal lavoro alla religione, tutte inserite in un’ambientazione periferica, una realtà che nei media riesce a emergere solamente quando è legata a qualcosa di tragico.
In molti dei tuoi spettacoli racconti di persone che vivono ai margini della società: dai malati di mente agli operai, fino ad arrivare ai carcerati. Anche in “Laika” parli di un mondo di periferia, abitato da personaggi non convenzionali. Cosa sono oggi le periferie delle grandi città e come sono cambiate rispetto a quelle narrate, per esempio, da Pasolini?
Sicuramente oggi le periferie soffrono di più il rapporto con il centro, nel senso che le zone centrali delle città esercitano una forza attrattiva. Prima esisteva, invece, un senso di appartenenza alla cultura che quelle periferie esprimevano, anche perché molto spesso vi si ritrovavano persone provenienti dalle stesse regioni, che sceglievano di vivere insieme in una determinata zona del sobborgo creando, quindi, un’identità ben precisa. Quell’identità culturale che si poteva ritrovare nelle periferie italiane degli anni Venti, Trenta e Cinquanta oggi è ricreata solamente dalle comunità straniere, che vivono in condizioni misere, molto spesso peggiori di quelle degli italiani. Oggi è molto evidente lo scarto che esiste tra gli stranieri che abitano in case occupate e gli italiani dello stesso quartiere che, invece, appartengono alla piccola borghesia.
Come creare, all’interno di queste periferie, un clima di convivenza?
Bisogna fare in modo che tutto non accada da solo, perché è ovvio che un cinese voglia abitare in prossimità di persone con cui condivide lingua e tradizione, proprio come facevano gli emigrati italiani in America, o quelli delle regioni del sud Italia nelle città del nord. Si dovrebbe puntare su un rimescolamento, anche se il problema è soprattutto economico. Gli eritrei o gli etiopi che lavorano nei magazzini della logistica, come quelli del mio spettacolo, non vivono nella case occupate sulla Tiburtina solo perché decidono di abitare tutti insieme, ma perché queste abitazioni sono gratuite, abbandonate e in stato di degrado. Queste persone le rimettono a posto, le autogestiscono e mantenerle non è sicuramente un divertimento per loro. Il problema principale è quindi la povertà. Oggi chi è veramente tagliato fuori dalla società è colui che non si può permettere di uscire di casa, o baracca, occupata.
“Laika” è uno spettacolo che affronta anche un argomento complicato come quello religioso. Perché questa scelta?
Ho usato altre volte personaggi religiosi come la Madonna e in alcuni casi persino Dio. Faccio questo perché mi piace molto utilizzare protagonisti che le persone conosco bene, anche per una memoria antropologica. Gesù Cristo, la Madonna e i Santi sono conosciuti sicuramente da tutti e sono elementi della narrazione che diventano immediatamente evocativi di un mondo vastissimo: dalla preghiera alla bestemmia, dal racconto della tradizione orale alla teologia più articolata e incomprensibile.
Da “Pro Patria” a “Laika”: dopo più di due anni sei tornato sul palco del Teatro della Società di Lecco. C’è un filo conduttore tra questi spettacoli?
In realtà tutti i miei spettacoli partono da idee molto simili. Il tema del salto nel vuoto è una di queste, perfettamente esemplificata dal protagonista di Pro Patria, che parlava della controvertigine, ossia l’attrazione per il vuoto, la tentazione di un suicidio vitalistico. I personaggi di Pro Patria appartengono al Risorgimento repubblicano e anarchico e fanno cose folli, spessissimo sono sconfitti ma agiscono: «noi corriamo dietro un fantasma, ma corriamo», diceva infatti Pisacane. Qualcosa fanno del resto anche gli uomini e le donne di Laika, quando decidono di intervenire contro le guardie e in difesa del barbone.
Molto spesso nelle periferie italiane, compresa quella raccontata da lei, i personaggi prima di reagire rimangono inermi, a volte si lasciano andare alla disperazione o, peggio ancora, si rifugiano in semplificazioni molto pericolose…
Più che alla disperazione, a mio parere, ci si lascia andare alla propria condizione, che è qualcosa di diverso. Si accetta infatti quello che viene proposto, scegliendo quello a cui ci si deve aggrappare e quello che invece si lascia andare. Gli abitanti di Tor Sapienza che lanciano i sassi contro i ragazzi rifugiati non fanno una guerra tra poveri, ma una guerra contro i poveri. Queste persone non sono davvero povere, nonostante vivano sicuramente in condizione di precarietà, e se la prendono con persone molto più in difficoltà di loro. Non sono, quindi, poveri contro poveri: è sempre la catena alimentare del potere, dove il pesce grande mangia quello piccolo e quello piccolo fagocita quello piccolissimo.
C’è la possibilità di rompere questa catena? Le persone che vivono una simile quotidianità sono in grado di migliorare la propria condizione, magari organizzandosi?
Possono succedere due cose in linea di massima: una è che le persone si muovano perché sono obbligate a farlo e l’altra, più difficile ma preferibile, è che si riesca a fare un ragionamento più alto. La comunità della Val di Susa, ad esempio, si attiva nel momento in cui si rende conto che arriverà una tratta ferroviaria a portarle via quasi tutto: se ti sfondano la porta di casa devi uscire per forza. Altro esempio, invece, Lampedusa nel 2011. Il governo aveva lasciato sull’isola migliaia di immigrati, in grandissima maggioranza giovani maschi. Una situazione, questa, che qualcuno avrebbe pensato sfociasse in atti di violenza, che però non si sono verificati. Questo anche perché i lampedusani hanno scelto di aprire le porte delle loro case, cucinando per una popolazione che era, forse, il doppio di quella residente. Si tratta del senso umano e non divino della compassione, che si accende, come dicevo, se c’è una riflessione molto alta, oppure se proprio non ne puoi fare a meno. Bisogna comunque dire che tanti si muovono ma non sono raccontati da nessuno, come affermato anche da Alba Rohrwacher nel mio spettacolo.
A proposito della voce fuoricampo di Alba Rohrwacher, come mai hai scelto di affidarle il personaggio di Pietro?
Lavoro con le voci registrate da ormai quasi vent’anni e spesso i miei personaggi mescolano i generi. In questo caso c’è la figura del fisarmonicista Gianluca Casadei, che impersona fisicamente Pietro. Si tratta di un uomo grosso, quadrato e con uno strumento rettangolare e ho scelto di dargli una voce leggera, da ragazzina, come quella di Alba, perché volevo raccontare cosa vedo e come è realmente quel personaggio. Pietro è, infatti, un poveraccio anche nel Vangelo: viene chiamato così perché è di pietra, è un uomo di poca fede, ha mille dubbi, tiene la cassa e gestisce le cose più pratiche, tanto che nel mio spettacolo lo faccio andare al supermercato. Rappresento, quindi, un Pietro come lo vedo, ossia con una fisicità apparente, ma con la voce e l’ingenuità di una bambina.
Daniele Frisco